Di Mario Monti e delle sue misure
“Il governo Monti rivela un piano di misure «draconiane» per evitare l’insolvenza” (Fonte: Lettera43)… Ma che cosa significa “draconiane“?
Il riferimento è al fatto che “principali quotidiani internazionali, che, dagli Usa alla Francia, concordano sulla severità delle misure varate e mettono in evidenza le lacrime del ministro del Welfare Elsa Fornero, segno della «durezza» del pacchetto di austerità italiano” (ivi).
Sfogliamo il dizionario etimologico. Draconiano: “dicesi di Legge o disposizione eccessivamente dura, da Dracòne, arconte e legislatore d’Atene, celebre per la sua severità“.
Di Dracone e d’altri inganni
Chi fu veramente questo Dracone cui si fa riferimento?
Domanda interessante, ma prima di procedere vorrei fare una piccola precisazione sull’avverbio “veramente”. Con esso, intendiamo connotare la questione come segue: “Su Dracone, quali proposizioni vere possiamo enunciare delle quali disponiamo di una opportuna giustificazione?”. Vi sono infatti molte cose vere che possono essere enunciate senza per questo averne prova. Si potrebbe ad esempio sostenere che Dracone fosse un amante delle bevande alcoliche; tale proposizione ha i caratteri della verificabilità e poteva essere facilmente accertata (almeno) da un contemporaneo di Dracone. Per noi, tuttavia, l’enunciato in questione è sì verificabile, ma non disponiamo dei mezzi per farlo. Essendo quindi potenzialmente verificabile ricade nell’ambito dell’ipotetico e perciò deve essere scartato.
Quando dunque ricerchiamo una verità, non ne indaghiamo solo l’enunciazione valida (“Dracone amava le bevande alcoliche”), ma anche una ragione sufficiente per sostenere tale enunciazione (“Ciò è confermato da numerose testimonianze dei suoi contemporanei”). Pertanto, nel chiederci chi fu veramente Dracone, dobbiamo attenerci ai fatti storici la cui notizia ci è pervenuta.
Questo “pervenire”, tuttavia, è sempre frutto di una mediazione. Ciò restringe di molto il campo d’azione del curioso e dello studioso, poiché le informazioni ci giungono mediate da un linguaggio (con tutti i fraintendimenti del caso), che a sua volta non esprime fatti incontrovertibili, ma testimonianze (con tutta la vaghezza che deriva dalla fallacia della memoria umana) e interpretazioni (dovute, queste ultime, a colui che ci fa da mediatore). Non solo il linguaggio (sia esso una lingua — “tradurre è interpretare”, “comunicare determina sempre una perdita del senso complessivo” — o un linguaggio artistico — “che richiede esso stesso interpretazione”) pone i problemi tipici del mezzo comunicativo in genere, ma vi si sommano i limiti e i difetti del mezzo materiale (scrittura, racconto orale, rappresentazione grafica): esso è soggetto a difetti, imperfezioni e disturbi nella trasmissione (l’errore del copista, l’usura del tempo, lo sbiadire dei colori…).
Moltiplichiamo i passaggi, poiché a noi giungono notizie mediate ben più di una volta e conseguentemente con disturbi del mezzo, difetti del linguaggio, errori dei vari mediatori e pure le loro interpretazioni (più o meno giustificate, più o meno corrette, più o meno interessanti). A tutto ciò, aggiungiamo la nostra interpretazione. Quella dello studioso contemporaneo. Una interpretazione, questa, mitigata e condizionata dal momento storico, dal vissuto esistenziale dell’individuo e anche dalla contingenza generica che gli ha messo sotto gli occhi una cosa anziché un’altra. Cose comuni a tutti gli interpreti.
Potreste sostenere che quest’ultimo storico (il “nostro” storico) può, con onestà intellettuale, usare mezzi e strumenti per sciogliere il groviglio che circonda il fatto originario e giungere al cuore (magari impreciso, ma almeno privo di tutte le aggiunte successive). Come si decide tuttavia che alcuni mezzi sono più adatti di altri? Quali sono questi mezzi “onesti” per eliminare o almeno mettere da parte le aggiunte e gli errori incorsi nel tempo?
Il problema è che questa stessa idea che tali errori e aggiunte vadano tolte è frutto della nostra cultura e, pertanto, discutibile non nella sua efficacia (in effetti il sistema “funziona”) bensì nella sua validità. In un futuro (così come nel passato) potrebbe semplicemente non interessare questa presunta “originalità” e celebrare invece tutta la sovrapposizione che ha fatto giungere a noi le cose in un modo anziché in un altro.
Personalmente, però, sono fiducioso rispetto alle intenzioni di questa cultura attuale, che ricerca l’eliminazione di ciò che è superfluo nell’informazione che giunge a noi. Non sono un relativista e ritengo che per una certa categoria di fatti semplici sia necessario far affidamento ai metodi sviluppati negli ultimi anni (dai tempi delle Annales, per intenderci). Il presupposto di questi metodi non è infatti l’assunzione di un unico criterio alla guida di un certo tipo di ricerca (il progresso, la provvidenza, etc.). Tali metodi riflettono invece sul perché in passato si sono ottenuti risultati diversi a seconda dei criteri ottenuti. Una riflessione, questa, non tanto sulla storia, ma sul “come abbiamo fatto storia finora?“. E’ dunque un meta-presupposto, che va oltre tutti i presupposti e ci fa capire che, in base alle scelte che si fanno, si ottengono diversi risultati — alcuni preferibili e alcuni no, proprio perché alcuni portano all’accertamento e altri portano a confusione.
Farò un esempio nel tentativo di essere più chiaro. Tenendo presente quanto detto sopra circa le diverse stratificazioni di errori, aggiunte, difetti di vario genere, possiamo immaginare la storia ideale di un’informazione:
Dracone amava le vivande in generale. Molti ne scrissero, ma quando i barbari devastarono la biblioteca di Alessandria restò solo un manoscritto a testimoniare questa cosa. Ne vennero fatte tre copie in tre diversi monasteri nell’arco del Medioevo.
Una andò perduta e le altre due andarono incontro a sorti diverse: una restò prevalentemente invariata nel corso del tempo e fu copiata altre volte, ma con una discreta precisione; il problema è che i libri precedenti andarono perduti e l’ultimo fu tradotto in cirillico, lingua che pochi conoscono e perciò fu sottratto per molto tempo agli occhi degli studiosi. La seconda copia sopravvissuta fu a sua volta distrutta, ma nel frattempo un altro frate l’aveva copiata, sbagliando però alcune lettere: scrisse infatti bevande anziché vivande.
Qualche secolo dopo, uno studioso del tardo 1600, in un clima di proto-illuminismo mise mano a quest’ultimo testo e lo adottò come slogan per un suo libello polemico contro il re di una nazione europea che era stato molto duro con i suoi sudditi. Scrisse infatti: “Il re è duro sulla piazza, ma debole in taverna. Come Dracone, che scrisse leggi severe e parimenti amava le bevande alcoliche“. In realtà, allo studioso del 1600 non interessava tanto la faccenda di Dracone. Gli piaceva più che altro l’idea di poter spalare merda sul sovrano.
Questo studioso era anche poco attento: lo scrivano che secoli prima aveva fatto una copia del testo contenente “bevande” scriveva in latino e non in greco, perciò utilizzò una parola che significa in generale bevanda, ma era molto spesso usata per designare i distillati alcolici. Perciò lo studioso del 1600, latinista migliore dello scrivano medioevale, non ebbe dubbi: quella parola lì indicava l’alcool e non una bibita qualunque.
Il pamphlet divenne molto celebre e lo studioso fu condannato a morte. Ciò accrebbe ancor di più la fama del suo testo, che venne citato a destra e a manca fino al 1930. In quel periodo, però, l’Unione Sovietica avviò un programma segreto affinché i testi confiscati ai monasteri fossero trascritti e archiviati prima di venire bruciati. Ciò includeva anche la copia-della-copia che rimandava al libro superstite di Alessandria che conteneva la versione originale: vivande.
Dopo la caduta del Muro (1989), numerosi studiosi Italiani si recarono in Russia e furono messi a loro disposizione gli archivi della Chiesa ortodossa, che rivelarono finalmente il testo sopravvissuto. Grazie ad accurate ricerche (datazione della carta, epoca della lingua usata, etc.), fu stabilito che questa versione russa era molto più vicina come traduzione e impostazione ai sopravvissuti di Alessandria che non la recente versione latina scoperta dallo studioso del 1600. Si dedusse che dopo il rogo della biblioteca alessandrina dovevano essere sopravvissute varie copie greche del testo originale e che un ramo fosse finito in mano ai frati che poi negli anni produssero la versione latina. Un altro ramo era invece finito in mano ad altri frati che lo avevano portato in Russia e lì non aveva subito grosse modifiche.
Il ramo 1 fu descritto come segue:
Greco (Alessandria) 1 > varie copie in Greco > Traduzione in Russo antico [STOP]
Greco (Alessandria) 2 > varie copie in Greco > varie copie in Latino > Versione latina del tardo medioevo [STOP]
Gli studiosi hanno in mano solo l’ultimo testo di ogni elenco, ma riescono a capire in vari modi come si è arrivati a questo (anche se, come si noterà, tutti gli anelli della catena sono ipotetici). In primo luogo, entrambi i testi iniziano dicendo: “Questa è una copia di un testo alessandrino ” e ciò è di aiuto, perché fa comprendere che c’era un testo di Alessandria che ha fatto da fonte. Segue quindi il testo di Alessandria, che però è scritto e raccontato nel tipico stile greco arcaico. Perciò sarà pure stato ad Alessandria, ma doveva risalire a molto tempo prima (o essere copia di un qualcosa di precedente) e, perché no, magari contemporaneo all’argomento di cui si parla, cioè Dracone.
Finalmente gli studiosi hanno messo le mani sulla copia russa che risulta più fedele all’ipotetico originale greco che non la copia latina del monaco medioevale. Si scopre inoltre che a Dracone, stando a questa testimonianza, piacevano le vivande e non le bevande.
Nulla di quanto sopra è mai accaduto. E’ solo un racconto. Una narrazione. La scienza filologica tuttavia lavora proprio in questo modo e ci sono storie vere che superano per complessità quella che ho inventato qui sopra.
Riprendiamo però il punto di vista dello storico. Poco sopra abbiamo visto come la storia contemporanea rifletta sui presupposti del lavoro storico. Essa mira a ciò che segue: l’oggettività. Oggettivo significa questo: chiunque, partendo dai miei presupposti, se conducesse la mia stessa ricerca, dovrebbe ottenere lo stesso risultato. In questo modo ci si assicura: “Lo so che sono figlio dei tempi e che pertanto quello che faccio potrebbe essere imperfetto,” dice lo storico dei giorni nostri, “perciò mi assicuro che chiunque condivida il mio stesso grado di imperfezione si trovi a confermare quanto io ora vado a cercare”. Allo storico attuale non interessa dunque un risultato piuttosto che un altro. Gli interessa la chiarezza nel procedimento e la sua verità dei suoi risultati quando sono posti in relazione con la sua posizione di partenza. In futuro si dirà: “Lui partiva da A e ha ottenuto B. Noi partiamo da D e abbiamo ottenuto F. Siamo però d’accordo che, se avessimo A, avremmo ottenuto B anche noi“. Questa cosa si chiama scienza. Galileo fu uno dei primi ad enunciare questo procedimento (che è uno degli aspetti del suo metodo).
Che cos’è però questa A di cui stiamo parlando? In primo luogo, come si diceva sopra, c’è l’aspetto contingente che influisce su tutto, cioè momento storico, vissuto esistenziale dello studioso, etc. Queste cose egli non le può controllare (ai posteri l’ardua sentenza). Ciò che può però controllare sono i termini delle domande che pone.
Ad esempio, la storiella precedente (vivande vs. bevande) potrebbe interessare per diversi motivi.
Lo storico della politica del tardo XVII sec. noterà che i politici dell’epoca erano tutti ottimi latinisti (al punto da capire il latino dei medievali meglio dei medievali stessi) e questo la dice lunga sulla formazione della borghesia.
Lo storico grafologo è invece interessato al fatto che un certo monaco in un certo periodo ha scritto bevande al posto di vivande. Forse l’ultimo dei medievali o forse un monaco prima di lui aveva sbagliato, condizionando con il suo errore tutta la catena di copisti che avevano permesso al testo di sopravvivere sostanzialmente (=quasi) invariato. Questo, secondo il grafologo, la dice lunga proprio perché i caratteri di allora erano molto più difficili da distinguere per l’occhio inesperto rispetto a quelli del giorno d’oggi e perciò gli errori erano comuni. D’altra parte, egli osserva che molti errori erano dovuti a ritmi di lavoro stressanti: ecco una novità che altri non avevano notato.
Infine, il biografo di Dracone giunge a dire: “per anni abbiamo creduto che Dracone amasse le bevande alcoliche. Questo era un errore, poiché il monaco che scrisse bevande non intendeva scrivere alcoliche. Ciò è comunque falso, poiché un testo ritrovato da poco rivela che bevande era un errore e l’originale aveva invece vivande. Dracone quindi non era un ubriacone“.
Il punto saliente è che, data una storia, è possibile chiarire in anticipo l’oggetto da ricercare ed esercitare dunque un discreto controllo sulla premessa A che conduce al risultato B, così da essere il più oggettivi possibili. Chiarendo il tipo di domanda, si chiarisce anche l’obiettivo e il tipo di risultato della ricerca (senza sapere però quale sarà questo risultato).
Esempio: “Sono un paleografo e perciò mi interessa capire perché molti scrivono BE e non VI nel tardo Medioevo” è ben diverso dal dire: “Sono uno studioso dell’antica Grecia e mi interessa stilare una biografia di Dracone fedele all’opinione che di lui avevano i suoi contemporanei” (notare che in quest’ultimo caso purtroppo non si accerterà mai se Dracone amasse le vivande. L’unica cosa che si può dire è: “Qualche suo contemporaneo disse che lui le amava e ritenne il fatto così rilevante da scriverlo” — come vedete, ci sono dei grossi limiti alla storia).
Le cose si fanno difficili quando anziché accertare fatti semplici bisogna confrontarsi con complesse articolazioni di eventi. Un conto infatti è accertare che “La nave X è affondata in data Y“. Altro è invece rispondere alla domanda: “C’erano attriti tra i Celti e i coloni Greci nel periodo della Seconda Colonizzazione?“. Nel primo caso, non c’è gran margine di errore: o lo sappiamo oppure no. Il fatto è verificabile; dobbiamo solo trovare il modo di accertarlo. Nel secondo caso, invece, la questione è ardua: facendosi archeologo, lo storico può mostrarci che vi sono stati scontri armati. In rapporto però al totale degli scontri armati, quelli con i Celti potrebbero risultare “inferiori”, mentre quelli con i Persiani “maggiori”. Tuttavia è noto che alcuni siti sono ancora in corso di esplorazione. Inoltre, quegli scontri “piccoli” sono importantissimi se rapportati agli effetti che ebbero sugli sviluppi successivi dell’area celtica in questione, mentre invece restano secondari sul piano europeo generale.
Questi due casi mostrano come gli eventi siano soggetti a maggiori o minori margini di interpretazione. Maggiore è il tentativo di narrazione storica, maggiore è l’interpretazione e l’ambito congetturale. Tuttavia, talvolta è impossibile non interpretare, poiché i fatti a nostra disposizione (quelli accertati) sono così pochi (storia antica) che dobbiamo stabilire delle relazioni arbitrarie (che lo storico giustificherà il più possibile, ma si tratterà di scelte sofferte). Oppure, i fatti sono così tanti (storia contemporanea) che possono essere stabilite tante e tali relazioni tra cose che ogni narrazione diventa possibile.
Chi fu veramente Dracone?
Torniamo alla domanda principale, esordio di tutta questa discettazione: “Chi fu veramente Dracone?“. Già: di quali fatti disponiamo? Quali di essi sono accertati? C’è modo di discernere gli errori di trasmissione e di interpretazione in modo tale da consentirci un’interpretazione che non sia perfetta, ma quantomeno suffragata da scelte ragionate e perciò dotata di un certo margine di oggettività? …E che consenta a chi segue le relazioni che tracciamo tra fatti di giungere alle nostre stesse conclusioni (accettando le nostre stesse premesse)?
Anzi, sapendo che la storia delle vivande e delle bevande era una bufala ideata a scopi esemplificativi, mi interessa — tentiamo di descrivere un campo di oggettività — semplicemente sapere non chi fu veramente (domanda interpretabile in molti modi), bensì se fu veramente severa la sua legislazione.
“Severa”, ma in che termini? Non ha senso dire “severa” rispetto ai nostri standard. Il paragone è impossibile e poco utile. Severo forse rispetto agli standard dell’epoca. Come valutare però gli standard dell’epoca se, come dice Aristotele, quella di Dracone fu la prima costituzione ateniese a essere scritta? (Aristotele, Le Costituzioni degli Ateniesi, Parte V, Sezione 41) Aristotle stesso non è forse l’autore di questo testo. Che fare?
Non ci resta che affidarci a chi fu l’artefice di tale opinione, cioè l’idea della severità. Anzi: dobbiamo affidarci a chi ci racconta che qualcuno un giorno disse che Dracone era severo. Fortunatamente, questa persona è lo storico Plutarco, che molti reputano abbastanza onesto e ben informato. Ecco cosa ci racconta Plutarco, nella Vita di Solone (fine dal Capo XVI e in tutto il Capo XVII):
“Inoltre, nominarono Solone supremo riformatore e legislatore, non solo per quel che riguardava l’amministrazione, ma mettendo ogni cosa simile nelle sue mani: magistrature, assemblee pubbliche, senato e tribunali. Aveva pieni poteri di confermare o abolire ognuno di essi e di risistemare i requisiti per parteciparvi, così come il numero di partecipanti e le date dei loro incontri.
XVII. Prima di tutto, respinse le leggi di Dracone, eccetto quelle relative all’omicidio, proprio a causa della loro durezza e delle punizioni eccessive che prevedevano. Infatti, la morte era la punizione per quasi ogni crimine, così che persino uomini imprigionati per insolvenza erano giustiziati e coloro che rubavano verdure e frutta soffrivano alla pari degli omicidi e dei furti di materiale religioso. In conseguenza di ciò, Demade aveva coniato la battuta secondo la quale “le leggi di Dracone non erano scritte con l’inchiostro, ma col sangue“. Si diceva che Dracone stesso, quando fu interrogato sul perché avesse deciso la pena di morte per gran parte dei crimini, abbia risposto che egli riteneva che la morte spettasse per i crimini minori, pertanto anche ai crimini maggiori in assenza di punizioni peggiori“.
Della severità e della pena eccessiva
Monti paragonato a Dracone. Bah. Sicuramente l’aggettivo draconiano è giunto a significare “severità” nella nostra lingua. Il problema è che Dracone, secondo Plutarco, non era solo severo, ma eccessivo nella sua severità, al punto da attribuire pene capitali (come la morte) anche per i reati minori.
Se Monti fosse un Dracone dovrebbe fare ben di più di ciò che fa adesso: sbattere in galera gli evasori, ad esempio… e ancora tale prospettiva parrebbe corretta all’opinione pubblica (quella di chi non commette reati). Invece, si limita al tecnico e all’austero.
…Ma si sa, la pena, anche se giusta, spiace sempre a colui che è punito. Soprattutto se il suo crimine è divenuto un’abitudine e si sente pertanto legittimato nel perpetrarlo — ritenendo invece offensiva ed eccessiva la sanzione in cui incorre. Questione di coscienza, la draconianità: non certo questione di regolamenti.
Di writers e d’altro ancora…
Pare però che qualcuno si sia fatto carico di questa ambiguità di significato e vogliamo perciò segnalarlo al pubblico. E’ un writer che si firma — guardacaso — DrakONE (o, talvolta, Drak.1).
Il suo stile è inconfondibile, anche se l’identità non è nota. E’ severo con se stesso fino al limite del masochismo: usa solo il colore bianco e il colore nero (per far la rima all’ipocrita clima di austerità dominante); i suoi segni sono incisivi e forti, quasi un voler calcare la mano; il lettering è graffiante e tribale, con una nota di arcaico infantilismo (forse un richiamo alle prime leggi); circondano la firma numerosi espedienti grafici, tra cui il ricorrente esplodere di schegge, che danno l’impressione di un testo che esce dal muro e perciò si realizza, come un “comando che in sé ospita la prescrizione a esser eseguito”.
Parimenti, egli è spietato con le autorità che non perdona per aver lasciato marcire il Paese. Equanime castigatore, punisce tutti coloro che considera rei allo stesso modo, imbrattando porte d’ingresso e, soprattutto, facciate e cartelli (coprendone le scritte: “tribunale”, “ufficio”, “municipio”). Nessuno sfugge alla sua foga e la velleità del suo gesto è pari solo all’imparzialità del suo colpire: come la peste del Manzoni egli è una falce che non fa distinzione di luogo o di ceto”. Dissacratore: nemmeno chiese e luoghi di culto sono esenti dai suoi interventi. E’ l’icona di una rivoluzione e al tempo stesso la morte di tutte le rivolte, poiché il suo intento è spietato e mira a mettere a tacere ogni voce che si ingrassa troppo a spese di voti e/o ideologie.
Vice versa, le autorità non gli perdonano le sue contraddizioni. Pare infatti che, proprio a causa dei suoi ultimi colpi nell’alto Biellese, nell’Astigiano (che seguono di qualche mese la sua comparsa nel bacino laziale-abruzzese), sia stato depositato il famigerato disegno di legge 1815 che mira a penalizzare i reati di imbrattamento, danni a beni pubblici e conseguente sospensione di pubblico servizio.
Nel frattempo la comunità della street art tiene il fiato sospeso e aspettiamo di vedere foto delle sue opere e l’esplosione della notizia nella stampa nazionale anziché doverci affidare alle temporanee e volatili testimonianze dei writer locali, fonte di tale preoccupazione.