Quando si dice battuta…
Commentando il nuovo libro di Sterelny, un professore australiano ha ironicamente riportato un episodio avvenuto durante una conferenza interdisciplinare. Al termine della sua presentazione, il mediatore in cattedra, noto psicologo, non risparmia le sue frecciatine: “Comprendo solo ora la differenza tra filosofi e scienziati: i primi usano solo i dati che appartengono agli altri (belong to others)“.
Applauso all’onestà intellettuale dello psicologo. Tuttavia, la filosofia non è solo questo. Subito, anche il filosofo si lascia scappare una frecciatina, niente affatto scettica: “Interessante che vi serviate dell’idea di proprietà nel riferivi ai dati sperimentali. Quasi fosse un vostro possesso”. Ecco riportata l’oramai annosa questione foucaultiana: i problemi non sono in genere epistemici; non riguardano insomma la conoscenza, bensì il suo controllo, il suo possesso. L’uso degli enunciati come beni, come prodotti di scambio, come merce: l’uomo stesso diventa merce nel gioco dei saperi che, precisiamolo, non è necessariamente un gioco di conoscenza pura.
Un mondo di giustificazioni
In un sistema di conoscenza sporca, spuria, come è di fatto il complesso mondo della vita, la verità lascia spazio a cose (ed enunciati) che della verità hanno il valore, ma non necessariamente la struttura. Importante è ciò che vale in quanto vero e non ciò che è provato come vero. Certo, la differenza è risibile in certi ambiti del quotidiano, come è vero che sto scrivendo su una tastiera. Ipotizziamo però complessi sistemi di riferimento (ad esempio i modelli esplicativi delle scienze) e chiediamoci se, talvolta, le verità delle proposizioni non acquistino un rilievo solo grazie al modo in cui il sapere si struttura. In questi casi, nessuno tocca la verità per quello che logicamente è (corrispondenza), ma si va a guardare quali sono le giustificazioni di quella specifica verità. Dire che quello di Higgs è un bosone ed esiste significa chiamare in causa un sistema esplicativo molto complesso, chiamato modello standard, secondo il quale bosone è ciò che si manifesta secondo certi criteri sperimentali e, a loro volta, tali criteri si basano su tecnologie che a loro volta si basano su principi fisici dati per validi entro domini molto ristretti (si pensi solo alla distinzione tra relatività ristretta e relatività generale, alle singolarità fisiche e a tutte le eccezioni necessarie) e, una volta confermato tutto ciò, i dati non sono presenti nudi e crudi, ma vengono filtrati dai nostri complessi sistemi percettivi (diventando perciò fenomeni) e, da ultimo, rielaborati in forma di configurazioni neuronali che solo accidentalmente potrebbero trovare traduzione in termini di un linguaggio specifico (enunciati) che presenta regole analoghe (ma non identiche) alle regole di legittimazione dell’esperimento e, per nostra fortuna, è traducibile nell’ambigua lingua naturale con la quale siamo cresciuti.
Questa sovra-importanza delle giustificazioni sopra le verità è ciò che consente alla scienza di sfidarsi e mettersi alla prova. Nel giudizio epistemico, non solo si dichiara l’implicazione “se X allora Y”… ma si comincia a domandarsi per quali valori di X c’è un Y e, infine, si controlla se quei valori corrispondono alla nostra percezione (o, quanto meno, alla nostra teoria di come la percezione dovrebbe funzionare). Questo non significa che “tutto è relativo” nel senso in cui “val tutto”. “Tutto è relativo” significa invece: la sua giustificabilità dipende dal sistema di riferimento adottato. Cambiando sistema, cambia la giustificazione (ma l’espressione X->Y restana sempre lì ad aspettare un sistema di riferimento che ci dica che cosa è X e che cosa è Y e, possibilmente, che corrispondenza c’è con le nostre percezioni).
Un universo di valori
Fin qui, però, siamo rimasti nell’epistemico. Immaginiamo poi che tutti questi sistemi, modelli, enunciati e dati entrino in un gioco più complesso, che ospita la scienza ma che non coincide con essa: società e cultura. La scienza si confronterà non solo con un universo di fatti, ma anche con un universo di valori. Tale confronto va dalla semplice comunicazione tra pari alle più complesse manipolazioni. Ne va della psicologia dei gruppi e dei singoli. Nella loro interazione, gruppi e persone fanno valere i sistemi di valori allo stesso modo in cui fanno valere i sistemi di riferimento, con la differenza che ai valori è associato un aspetto costruttivo e molto meno analitico, perciò può veramente saltar fuori di tutto.
I valori entrano in gioco in queste situazioni: finanziamento ai progetti di ricerca, comunicazione dei risultati alla popolazione di non specialisti, difesa personale (e acritica) di posizioni professionali e accademiche, emozioni, arroganza, paura, regolamentazioni etiche sofferte (su chi e su cosa si può sperimentare), religione, economia, etc… o, più in generale, potremmo dire che tutta la nostra impresa conoscitiva (relativamente recente) risente di un’altra impresa ancor più diffusa e pressante, ossia l’umana ricerca della felicità e della virtù. Poiché, come sappiamo, non è scontato che la felicità coincida con la conoscenza (e lungi da me il volerlo sostenere, per ora…), si mantiene il seguente problema: talvolta c’è rinuncia alla conoscenza in forza di alcuni valori ritenuti prioritari.
Non stupisce dunque che uno psicologo (o un fisico) sentano un brivido e un sentimento di ripicca e stizza quando qualcun altro mette mano al suo lavoro. Esatto: egli lo considera suo, ossia il frutto della sua esistenza. Vi si sente così legato (e non a torto) che, quando ne va dei suoi risultati, ne va anche di lui e della sua serietà. Magari il confronto con i colleghi lo elettrizza, ma ogni forma di assimilazione del suo operato extra-gruppo cui appartiene, gli suona alieno e problematico: si sente frainteso, si sente giudicato, etc…
Molto spesso le risposte sono di un raro e consumato dogmatismo: il filosofo non sa, non si permetta, non dica nulla. Non tanto perché ciò che dice è sbagliato, ma perché assume un ruolo che pare non gli debba competere. Un ruolo critico e perciò fastidioso. Il ruolo di chi va a leggersi il tuo lavoro per vedere se, putacaso, non hai lasciato che qualcuno dei tuoi valori andasse a confliggere con la tua interpretazione dei dati o, peggio, nel caso il tuo stesso quadro di riferimento vacilli su premesse mal poste.
L’idea di sport sul banco degli imputati
Eccomi dunque in una situazione simile. Non sono uno sportivo, ma quando vedo un cattivo uso delle categorie non posso astenermi dal commentare. Un cattivo argomento potrà pur essere corretto entro il quadro dell’esperienza di chi lo formula, ma se tali premesse non sono chiare o sono addirittura confuse e ambigue, la questione si complica, poiché non c’è ragione che tenga.
E’ dunque con dispiacere che osservo come il dibattito su Pistorius raggiunga un certo livello di meta-ignoranza. Ossia non ignoranza di ciò che si dice, ma del perché si dice ciò che si dice. Consideriamo ad esempio le recenti lettere alla Stampa. Berruti parla di “come sono lontani i tempi in cui un atleta era l’espressione incontaminata di quell’incontro casuale dei geni di papà e mamma che danno origine al mistero della vita!”. Per fortuna essi sono mantenuti ancora in certi ambiti “dello Sport, di cui le Olimpiadi sono la massima espressione”, il quale “si basa su due pilastri fondamentali che ne costituiscono il successo in tutti gli angoli della Terra: leale rispetto delle regole e assenza di ogni forma di aiuto o di privilegio durante la gara”. Non pago, formula il suo argomento-chiave:
“Ma anche le protesi di Pistorius, che secondo accurati studi di biomeccanica fatti da importanti laboratori stranieri, soprattutto tedeschi, danno una risposta elastica alla spinta superiore del 30% a quella di un piede normale (e inoltre sono esenti da ogni forma di affaticamento muscolare), non sono forse configurabili come una sorta di doping tecnologico? Certo, anche il passaggio dalle piste in terra battuta a quelle in materiale elastico tipo tartan avvenuto sul finire degli Anni ’60 è stato una specie di doping tecnologico, ma essendo uguale per tutti, il concetto di giustizia e uguaglianza sono stati salvi”.
Vediamo subito cosa stona in tutto questo quadretto ideale e felice. Vediamo insomma se egli non sia più schiavo di un’idealismo mal riposto anziché affidarsi alla concretezza (cui in un certo senso fa fede richiamandosi agli studi tedeschi). Con lui concordiamo che è grandioso che si sia giunti a dibattere di queste cose, ossia se un disabile possa o no accedere alle Olimpiadi. Egli stesso ammira il fatto che si sia compiuto un tale progresso in questo senso. Siamo d’accordo con lui… ma che dire del giudizio circa le protesi di Pistorius come “doping tecnologico”? A me pare che l’argomento potrebbe anche essere buono, ma non con le premesse fornite da Berruti.
Sola genetica?
Berruti: L’atleta è espressione incontaminata di un incontro casuale di geni che danno origine al mistero della vita.
A me risulta che un atleta sia ben altro. Un atleta è frutto di una cultura, di una formazione, di una certa condizione psicologica che lo porta a resistere o ad avere successo (o, nei giochi di squadra, a far incastrare i propri obiettivi a breve termine con quelli di un gruppo). Egli è il risultato della vita che ha vissuto, oltre che dei geni che gli hanno dato qualche talento. L’atleta è l’apice di un allenamento sia fisico che mentale (manteniamo per ora la distinzione). E’ molto spesso il risultato di un’alimentazione corretta. O, precisiamo, corretta per lui: se Balotelli scarica lo stress ubriacandosi e andando a donne ma ciò lo facilita nel gioco, ipotizziamo che, privato di tali valvole di sfogo la sua performance sarebbe inferirore. Idem per il fisico: a ogni livello si richiede tonicità musculare, salute, controlli medici. Ciò ovviamente non toglie che ci siano favole vere come quelle di chi riesce a fare tutto da solo o con pochi ausilii… tuttavia in entrambi i casi (scenario Rocky in montagna e scenario Draco in Madre Russia tecnologica) si può parlare di un lavoro fatto su se stessi, con l’aiuto o meno di altri. Lo sportivo è il risultato di questo lavoro che noi chiamiamo allenamento e che solitamente riguarda almeno un paio di persone, se non tre elementi (famiglia-atleta-allenatore).
Marcelli: Date certe basi biologiche, l’atleta è frutto del lavoro che egli (o altri) compiono su di lui. Precisamente quel tipo di lavoro che solo l’H. Sapiens pare esser capace di compiere, poiché è svolto secondo obiettivi che vanno al di là della semplice sopravvivenza (benché comunque lo sport includa una certa competizione selettiva). Più che di mistero della vita, parliamo di mistero della cultura.
I lontani tempi…
Berruti: I lontani tempi in cui…
Mi pare che qui il difetto sia una certa ignoranza della storia dello sport. Ironico che sia ignorata a tal punto da tutti i praticanti, alla faccia di chi dice che la storia non serve.
Tempi lontani, ma cosa si intende con “tempi lontani”? A livello tecnologico, non mi risulta che nei tempi antichi, come ad esempio nella Grecia Arcaica e Classica, vi fosse molta tecnologia in gioco. Tuttavia mi piacerebbe ad esempio sapere chi è che costruiva dischi e giavellotti per gli atleti.
Di per certo, tuttavia, so che molti di loro erano dopati nel senso moderno che attribuiamo al termine. Così come c’erano molti virtuosi (“Io quella merda non la prendo”). Da secoli si dopano i cavalli, ad esempio. Stranamente il doping non pare collegato molto all’autostima dell’atleta in sé, ma al sistema economico in cui lo sport è inserito. Il cavallo si dopa perché qualcuno ci ha scommesso sopra. Il ciclista si dopa perché c’è gente che ha aspettative nei suoi confronti, ma può anche essere spinto a doparsi per egoistici motivi di guadagno o perché il gruppo che lo finanzia lo esige da lui: tanti soldi furono investiti nella sua formazione, perché rovinare gli investimenti proprio ora? E’ nella natura dell’economia la riduzione delle componenti di rischio nel successo dell’impresa, cosa che secondo me è decisamente opposta allo sport e all’azzardo che in qualche modo ogni sfida richiede.
Da un lato, dunque, abbiamo una pratica di doping intenzionale ben diffusa e basata su calcoli economici. Ad essa aggiungiamo pure il doping involontario che, secondo me, è l’aspetto più interessante della storia dello sport. Ricordo il caso di un atleta molto amato in Magna Grecia: un lottatore di grande successo. Ecco, egli viveva in una baia ed era solito tuffarsi alla ricerca di molluschi dei quali era ghiotto. Purtroppo morì in giovane età: studi condotti sul suo cadavere ritrovato qualche anno fa hanno dimostrato che quei molluschi, data una certa variabile ambientale (ora non ricordo e non ho tempo di documentarmi, mi ricordo di aver letto il fatto su un quotidiano), prendevano a produrre una sorta di sostanza tossica che tuttavia favoriva l’attività fisica come una droga. Perciò quell’atleta era dopato senza saperlo e, anche se l’avesse fatto volontariamente, trovo molto labile il margine tra dieta e assunzione di droghe… una soglia che forse si può stabilire solo a livello giuridico.
Marcelli: I lontani tempi non sono mai esistiti. Berruti, quando parla di “bella età dell’oro” si riferisce inconsciamente a un periodo di ignoranza e mistero circa la fisiologia umana. I “bei tempi” sono un contraccolpo ermeneutico: i bei tempi sono la proiezione in un passato mitico e inconsistente delle nostre aspettative per il futuro. Oh, bella età dell’oro…
Assenza di privilegio?
Berruti: due pilastri fondamentali che ne costituiscono il successo in tutti gli angoli della Terra: leale rispetto delle regole e assenza di ogni forma di aiuto o di privilegio durante la gara.
Il rispetto delle regole è una questione puramente normativa e forse è l’unico vero elemento costitutivo dell’attività sportiva: una serie di norme che vanno rispettate e che portano a certi risultati che però non hanno nessun effetto se non quello di mostrare un processo che ha soddisfatto quelle stesse regole.
Viceversa, l’assenza di privilegio a me pare un falso mito di uguaglianza. La stessa idea di meritocrazia si associa a quella di privilegio. Chiaramente, il privilegio di cui parla Berruti è un privilegio ex ante: stando al suo ragionamento, si parte uguali e si arriva diversi. Strana concezione di causalità: se si arriva in posizioni differenti, siamo legittimati a supporre privilegi iniziali di cui nulla si sapeva. Ci dirà Berruti: “ma quei privilegi sono naturali!”.
Ancora una volta egli si richiama alla genetica, che però gli marcia contro. Abbiamo infatti visto che non serve solo genetica, ma pure allenamento. Se veramente lo sport è fondato su un egualitarismo contestuale indiscriminato e su una discriminazione basata unicamente sui geni (come pare supporre Berruti), proporrei di radicalizzarlo: chiudiamo tutti in una stanza, non diamo loro vestiti (voglia mai che un costumino tecnologico possa aiutarli), ma soprattutto diamo a loro lo stesso cibo e, anzi, costringiamoli ad assumerne le stesse quantità ciascuno (e chi se ne frega se uno è allergico al lattosio), a fare gli stessi movimenti ciascuno. Poi li mettiamo in una pista e vediamo chi corre di più. Solo allora avremo il vero vincitore “puramente genetico” della gara.
Quello che ho appena descritto non è sport: è un lager. Non stupiamoci se, storicamente, i regimi totalitari furono sempre sostenitori di una certa attività fisica: non li facciamo giocare perché si divertano o siano sani, ma li inseriamo in un sistema di competizione che rifletta il nostro modello eugenetico di cittadino sano e fedele alle regole.
Io credo che Berruti pecchi per ingenuità, ma ritengo molto grave che al giorno d’oggi giri l’idea che lo sport è una sorta di pratica eugenetica. Esso trasmette pure l’idea che si giochi per vincere e non per giocare… competizione che appare molto più marcata negli sport individuali (atletica, ciclismo, etc.) che non negli sport di squadra. Bolt ci ha dato un grande insegnamento, mostrandoci che l’atletica e lo sport sono divertimento ancor prima che vittoria… ma naturalmente i moralisti dell’eugenetica lo hanno bacchettato per la sua mancanza di serietà, ricondotta non alla categoria dell’entusiasmo, bensì all’idea di uno scherno nei confronti degli altri.
Anche lasciando stare l’eugenetica, quanti privilegi esistono prima di una gara? Proviamo ad elencarne alcuni…
- Alimentazione (che, a seconda dell’expertise medica del tempo può addirittura scadere in doping involontario);
- Allenamento fisico e tecniche di sviluppo musculare;
- Tecniche e trucchi noti solo a chi li ha sviluppati (esempio: rivoluzione tecnica del salto in alto);
- Allenamento e motivazione psicologica (da parte di famiglia, allenatori, esperti, etc. etc…. livelli di stress da controllare e così via);
- Età;
- Etc.
Ne ho elencati pochi, cui va aggiunto il fattore denaro e investimento (anche in termini di tempo).
Nella nostra ideologia dello sport, l’attività sportiva dovrebbe essere tale che, nonostante tutti questi supporti e aiuti, a qualcuno dovrebbe essere comunque consentito di primeggiare in sola virtù delle sue capacità derivanti dalla sua storia individuale. Tuttavia, per ottenere un risultato simile, dobbiamo eliminare il professionismo: nel caso degli sport di squadra, gli investimenti in denaro sono spesso la chiave del successo; nel caso degli sport che richiedono strumenti, non è detto che tali strumenti siano sempre disponibili a tutti i partecipanti (biciclette, racchette, scarpe, etc.) e non è detto che tutti possano usufruire delle stesse tecniche, insegnamenti o sostegno personale; resta naturalmente l’atletica, che però al giorno d’oggi non pare molto immune a ingegnerizzazioni di vario genere.
Marcelli: lo sport (competitivo) è un mondo di privilegi, dove a stento le regolamentazioni riescono ad attenersi all’idea di base, ossia realizzare un processo di interazione che soddisfi certe regole e solo quelle (e, allo stesso tempo, garantiscano che tutti si divertano). Ormai le regole delle competizioni sono estese e complesse, perché devono tenere conto di una nostra sempre maggiore conoscenza (e dunque controllo) delle dinamiche coinvolte nello svolgimento di un’attività fisica o tecnica che conduce alla competizione. E’ proprio in tale complessità che emergono problematiche filosofiche di base, ovvero la terra nullius delle categorie della lingua naturale. Nella pratica sportiva contemporanea, tali categorie si dissolvono e sono labili i confini tra dieta e doping, investimento monetario e vantaggio effettivo, vissuto esistenziale unico e predisposizione al successo nelle competizioni.
Giocare con le variabili
Berruti: Doping tecnologico, piste di tartan e protesi di Pistorius.
L’elemento positivo del discorso di Berruti è che egli osserva come il doping tecnologico non sia un male in sé, ma lo diventi nel momento in cui esso non è accessibile a tutti.
Io credo che tale immagine rappresenti una sorta di liberalismo ideale. Secondo questa visione, è confermato (come sostengo sopra) che le variabili non siano tutte controllabili e definibili ma, finché è garantito a tutti il libero accesso a tali variabili, allora l’attività sportiva è fatta salva. Con un altro esempio, potremmo pensare ai parametri di un mixer distribuito a una serie di contendenti: dato un impulso sonoro, tutti sono liberi di agire sui vari parametri (o di non toccarli). La scelta è dei partecipanti e l’unico risultato è un risultato creativo (ovviamente sempre e inevitabilmente condizionato dalla formazione, ossia: tecniche apprese e vissuto esistenziale).
Se il doping tecnologico non è un male in sé, perché allora etichettarlo come doping, parola che, nella nostra società ha una connotazione fortemente negativa? Io credo che l’uso della parola doping per definire ogni tipo di miglioramento abbia dei risvolti etici inquietanti.
La questione delle droghe pone dei problemi etici non irrilevanti, ma il vero motivo del perché stonano al nostro orecchio è perché hanno effetti deleteri e negativi a lungo termine sul corpo e sulla mente dell’atleta (danni, malattie, dipendenza…). Esperimento pensato: se esistesse una droga innocua, che modifica alcuni parametri fisiologici senza però avere effetti collaterali, sarebbe molto difficile distinguere tale droga da una tecnologia qualunque o addirittura da un paio di scarpe. Essa fa salva la salute, grande ideale dello sportivo e, ironicamente, potrebbe rivelarsi meno deleteria dello sport stesso, che talvolta — a causa degli sforzi richiesti — causa problemi di salute specifici nello sportivo una volta giunto in tarda età.
Anzi, quasi quasi persino la questione della salute dello sportivo è un po’ da mettere in parentesi perché non sembra un principio così fondamentale. Nel mito, il maratoneta corre 42 km e poi muore dopo aver consegnato il messaggio circa l’esito della battaglia. In un certo senso, molti sportivi si sottopongono volontariamente a stress non necessari a condurre una vita sana e subiscono danni di ogni genere (dai legamenti a problemi più gravi, come nel caso del pugilato). Non è nemmeno rara la morte durante un’attività sportiva.
Marcelli: Quello che fa del gioco un gioco è proprio il suo insieme di regole. Nemmeno la salute è un ideale così solido al di fuori della mente degli sportivi, i quali non sempre assumono comportamenti a tutela della loro condizione fisica. In questo quadro complesso, l’uso di sostanze chimiche e l’uso di tecnologie diventa estremamente labile.
Conclusioni: i timori degli sportivi
Una cattiva concezione di che cosa è lo sport, anche sostenuta con una ingenua buona fede, può condurre a confusione e ambiguità circa che cosa è in ballo mentre si tratta un problema ad esso legato.
Abbiamo finora visto come lo sport ci disgusti se concepito in termini puramente eugenetici… tuttavia continuiamo a rifiutare l’idea che all’attività si possa prender parte servendosi di tecnologie varie che, istintivamente, assimiliamo al “malefico” doping. L’unica definizione possibile di sport è quella di attività condotta secondo le regole (lo Spiel di Wittgenstein), poiché ogni tentativo di stabilire tali regole una volta per tutte finisce inevitabilmente per incontrare le problematiche derivanti dalla nostra conoscenza.
Inevitabilmente, le preoccupazioni degli sportivi, nell’ingenuità con cui perseverano nell’utilizzare categorie ambigue, evidenzia il malessere generale nei confronti della critica cui queste stesse categorie tradizionali sono sottoposte da parte della scienza e conoscenza umane. Nello specifico, sono venute a cadere barriere tra il naturale e l’artificiale, tra il tecnologico e il chimico, etc…
Non posso che costatare come questi timori diffusi presso gli sportivi riflettano una preoccupazione generale della nostra società, ossia la totale perdita di valori stabili in seguito alla messa in discussione di valori tradizionali. Il segreto timore, insomma, che con l’aumentare della conoscenza e della tecnica aumenti il controllo e, se aumenta il controllo, ogni cosa potrebbe ridursi a una partita a scacchi le cui regole sono quelle della “natura”. Ne va del libero arbitrio umano, un tempo fondato sull’ignoranza e ora privo di basi dinanzi a una tecnica del controllo che non ammette ignoranza alcuna (come la legge): il timore, insomma, di scoprire di essere le pedine (sociali, sportive, etc.) di una partita le cui regole non sono state decise da noi.
Alternativamente, proseguendo la precedente conclusione che non è una conclusione, si potrà dire che noi abbiamo comunque un ampio margine per stabilire le regole del nostro vivere, ma ciò è possibile solo grazie alla titanica accettazione della trasvalutazione di tutti i valori in favore di un nuovo ideale dialogico e critico che consenta a tutti un democratico confronto su quali regole stabilire per il nostro vivere sociale.