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Diario d’Australia 4: Finché la barca va…

Ok, questo non è un vero e proprio resoconto australiano, bensì una riflessione su alcuni aspetti comparabili del modo cui ero abituato un tempo e delle (per me) nuove abitudini associative

Iniziare a far vela in Australia

L’Australia è un luogo peculiare per i velisti. Vi sopravvive una tradizione affatto anglosassone, che non separa i luoghi d’apprendimento dai luoghi di pratica quotidiana — come invece accade in Italia — ma raccoglie tutti sotto un non troppo metaforico unico tetto, quello dello Yacht Club.

Chiariamo subito i termini della situazione. In Italia m’è parso di capire che funzioni in questo modo: coloro che vogliono accostarsi alla pratica della vela trovano qualcuno che insegni loro il mestiere e, possibilmente disponga già di tutti gli strumenti necessari all’apprendimento. Solitamente, si tratta di scuole di vela, le quali propongono brevi corsi settimanali durante l’estate (es.: scuola vela di Caorle) o, per i più audaci, veri e propri ritiri in isole mediterranee dove ci si esercita otto ore al giorno (es.: Caprera). In alternativa, è possibile ricorrere ai vari affittabarche disseminati per le nostre spiagge, cioè persone che, con la dovuta cura, mantengono in attività una piccola flotta e, non troppo raramente, insegnano pure ai loro clienti come servirsene (es.: Toni, sulla spiaggia libera di Ponente). Una volta ottenuti i rudimenti, il velista sceglie se procedere con gli affitti oppure acquistare la propria deriva, che prenderà il largo a partire da una delle numerose corsie disponibili nelle nostre località marittime. Lo stesso dicasi per le vele d’altura, dove nuovamente si ripresenta il binomio tra insegnamento e pratica privata. I costi di mantenimento si moltiplicano, soprattutto perché i natanti occupano ben più di un garage e, solitamente, il posto barca costa più della barca stessa. Fortunatamente, l’amatore potrà trovare mille occasioni per imbarchi temporanei presso amici e professionisti: è molto spesso preferibile affittare il mezzo in loco, dividendo le spese tra compagni di viaggio (soprattutto se siamo arrivati in aereo in una località remota); in alternativa, alcuni siti costituiscono un utile social network che consente a chi cerca equipaggio di incontrare chi cerca un imbarco. Infine, esistono pure veri e propri viaggi organizzati, talvolta dalle stesse scuole di vela.



A Melbourne pare che gli affittabarche non esistono. Ciò è un male per chi intende svolegere un po’ di pratica in solitaria. Non sempre infatti ci si può permettere un maestro e, ammettiamolo, apprese le basi della deriva diventa tutto un continuo perfezionarsi. Probabilmente qui qualcuno affitta barche da crociera, ma non si adattano ancora al mio caso! Non mi è rimasto che aggirarmi per gli Yacht Club.

Dovevo aspettarmelo, da questi Inglesi! L’idea generale ricalca il Club dei gentiluomini che potremmo immaginare nasca più o meno come i circoli Dickensiani. D’altra parte, la logica anglosassone resta la seguente: istituiamo dei luoghi dove sia consentito a persone che condividono la stessa passione di incontrarsi. Il presupposto è quello di una serrata ma amichevole competizione all’indice della cordialità. In ciò, essi rasentano l’origine etimologica della parola “sport”. Notiamo subito le differenze… Da noi, sussiste la separazione tra “mi arrangio” e “pago un esperto per condurmi sulla retta via”. Qui, invece, si dice: “intanto troviamoci, poi vediamo cosa succede”. In Italia, si istituiscono continuamente relazioni binarie di clientela, qui invece, tutti vanno letteralmente “sulla stessa barca”: dilettanti, proprietari, etc., e la loro rete costituisce di per se stessa il servizio cui ognuno si riferisce. Da noi, il rapporto clientelare si fa rete solo nel momento in cui diversi “clienti” si incontrano tra loro — e, se costoro stabiliscono legami forti, ha tutto il sapore dell’occasionalità. Da queste parti, vince in un certo senso il legame debole: esso non preclude la nascita di legami “forti” tra alcuni membri, ma non presume il legame forte come unica base dell’associazionismo. Ognuno fa riferimento a tutti i membri del gruppo, che si impegnano a guidarti e introdurti e, contingentemente, tutti pagano una quota associativa che consente loro di tenre in piedi servizi di base (la rimessa per le barche, la torre di controllo per le regate, il bar a prezzi politici). Non siamo semplicemente i clienti di uno stesso supermercato, ma i sostenitori di un’idea comune.

Non tiri i remi in barca? Zeru Tituli

E’ forse il momento di una breve digressione sull’associazionismo. Mi rendo conto che le generalizzazioni su base nazionale possano sembrare fattizie, perciò mi limiterò all’esperienza personale. Come si leggerà nel prossimo paragrafo, in cui parlerò del Port Melbourne Yacht Club nello specifico, ogni sistema ha dei difetti e dei punti di forza. Il mio vissuto italiano, ad esempio, mi insegna quanto segue. In primo luogo, anche se il rapporto maestro/allievo, skipper/studente di vela, etc., ci dà sicurezza, esso non porta molto lontano. In effetti, il mio ego italiano è rassicurato dal sussistere di una scuola: potrà essere imperfetta, ma ha delle pratiche definite e regolamentate. Prevede dei passaggi successivi. Prevede inoltre degli scalini, che in un certo senso mi aiuteranno a capire quanta distanza ho coperto finora. Non neghiamolo: talvolta siamo innamorati dei ‘titoli’; che differenza c’è, infatti, dal “passare di grado” come velista e dal “valore legale dei titoli di studio”? Il problema dei titoli è che, poiché essi sono ottenuti sulla base di una performance occasionale, premiano la prontezza di spirito a breve termine, ma non il lavoro certosino. Ecco quindi che il sottoscritto aveva finito per “studiare per l’esame”. C’è voluto un anno per comprendere che, mentre mi protendevo con tutto il mio essere verso la performance finale, in realtà stavo anche accumulando competenze extra-curriculari. La ricerca del titolo non è dunque esente da un valore formativo, ma quest’ultimo giunge a coscienza solo tempo dopo — e talvolta dopo una crisi sistemica. Detto questo, appare evidente perché una scuola come Caprera affascina la mia fantasia: essa propone settimane intensive, in cui all’esperienza tecnica si aggiunge la vita comunitaria legata al mare. Ogni settimana è progettata in modo da curare tutti gli aspetti che si suppongono pertengano a quello specifico livello di competenza che il discente vuole acquisire. Il programma è ben organizzato e puoi star sicuro che, nel giorno X avrai visto X cose, e in quello Y un numero di cose Y. Le settimane successive si ramificano in corsi differenti per specialità, con relativo patentino: altura per chi ama la crociera, deriva avanzata per chi, appresi i rudimenti, vuol gareggiare; catamarano per chi ama variare le competenze. E’ ironico però pensare che questi corsi (che secondo me sono veramente formativi e ben pensati, ma offrono comunque conoscenze che possono essere acquisite altrove, anche se magari in modo meno vacanziero) non avrebbero gli allievi che hanno se, alla fin fine, non offrissero un timbro su un foglio e le congratulazioni della commissione giudicatrice. Ancora una volta, l’Italiano si mostra innamorato del “valore del titolo”, anche se non è legale (di fatto non ottieni una licenza nautica). Può essere il corso più formativo del mondo (e probabilmente è al top delle classifiche per ragioni puramente oggettive), ma secondo me senza un pezzettino di carta alla fine i clienti non sarebbero soddisfatti, non importa l’esperienza acquisita o le amicizie contratte durante le esercitazioni e la spartana vita di mare. Chissà.

Hanno tutti voglia di mafia?

Oltre a quello del titolo, in Italia mi è capitato di vivere situazioni che, giocoforza, sono frutto di un secondo problema. Tralasciando la scuola e parlando di associazionismo, ho notato che in Italia la base fondante di quasi ogni associazione è un rapporto d’amicizia di tipo personale e privato. Questo, se vogliamo, è il nostro più grande punto di forza e, allo stesso tempo, la nostra più grande debolezza. L’amicizia infatti non ammette ipocrisie e, se è solida (anzi, solidissima), il gruppo acquisirà un enorme potere realizzativo derivante dalla sua coesione. Ogni volta che mi reco in un’associazione (non me ne vogliano i soci vari!) io dico: “vado in ass.” — ma in realtà penso: “vado dai miei amici”.

Se questo rapporto funziona, allora ne nascono grandi cose. L’associazione/gruppo di amici all’italiana va avanti come un carro armato alimentato dalla fedeltà reciproca e dal debito reciproco che ognuno contrae. Inoltre, il legame fortissimo costituisce un’esperienza di inclusione e accettazione ineguagliabile. Inevitabilmente (e, a seconda degli scopi del gruppo: nel bene e nel male), ogni associazione “all’italiana” finisce per diventare una setta. Di nuovo: non me ne vogliano i miei consoci in lungo e in largo, ma non sto dando giudizi di valore e, se la parola non vi piace, sostituitela pure. Tuttavia perché no? Ogni associazione italiana aspira a essere una P2 nel suo settore, anche se non necessariamente una mafia (cioè non necessariamente è richiesto l’uso della forza o del denaro per realizzare lucro). Il senso di appartenenza è così forte che a ognuno par quasi (nei momenti in cui il senso critico viene a mancare) di appartenere all’unico insieme di persone che “fa questa cosa qui nel modo giusto”. Con ciò — perdonate lo sproloquio — non intendo dire che siamo tutti ultras, però senza dubbio risentiamo di un certo desiderio di localismo condiviso (ma non troppo esteso).

Ho la netta sensazione che ciò derivi in gran parte dal modo in cui nella nostra cultura (e forse in quella di altri popoli mediterranei) si sia sviluppata la relazione tra pubblico e privato. Si tratta di un’opinione personale che non condurrò alle sue estreme conseguenze in questo post — se ne intuisca però la portata: il bar, la piazza, l’agorà, il farsi i cazzi propri ma raccontar tutto davanti a un bicchiere. La separazione tra pubblico è privato non è mai netta e, quando lo è, assume i caratteri dell’incredibile, poiché mette in luce le contraddizioni sociali più radicate. Da un lato gli anglosassoni, capaci di detronizzare un presidente per qualche rapporto extramatrimoniale (ma non erano loro i paladini della separazione pubblico/privato? Nel frattempo in Italia si grida a gran voce: “erano affari suoi”); dall’altro, gli Italiani sempre disposti a perdonare anche nei casi peggiori (chi fa da sé fa per tre, evado perché evadono tutti… come si permettono di venire a controllare me e non quell’altro?, ho commesso un reato ma lo commettono tutti — mal comune = legge).

Senso di gruppo, accettazione, appartenenza… l’idea degli optimates! Non sono di certo cose aliene all’estero, ma quando si verificano sono sempre ammantate di ombre cospirazioniste e, dal punto di vista italiano, persino un po’ troppo eccessive, ritualiste e talvolta carenti del più sano pragmatismo (non riteniamo forse ridicola l’ossessione americana per le Confraternite? Ebbene, tale esperienza di comunità “forte” manca così tanto da quelle parti che sono costretti a renderla artificiale… noi invece la viviamo ogni giorno senza accorgercene e quel loro modo di esprimerne il bisogno ci sembra semplicemente fuori luogo e alienante, proprio perché loro devono ripetere ad alta voce quello che fanno mentre lo fanno — noi non ci pensiamo nemmeno e in un senso molto lato tale “incoscienza” finisce per rendere il tutto molto più efficiente).

Qual è però il maggior difetto (interno) di questa “band of brothers” all’italiana (non a caso Shakespeare ambientava le tragedie dalle nostre parti)? L’associazione viene a mancare nel momento in cui vengono a mancare i rapporti privati. Spesso, non c’è nulla in essa che le consenta di sopravvivere in virtù del servizio che offre e non in virtù della collaborazione tra i suoi membri. E’ un po’ come se da noi tutte le associazioni, anche quelle di diritto, fossero meramente de facto. Come in una band, nella quale non basta suonare insieme ma serve “quel qualcosa in più”, anche nelle associazioni italiane quando si rompono le amicizie va tutto a rotoli. Una maldicenza, un rancore celato per troppo tempo… sono tutte bombe a orologeria pronte ad esplodere. L’alternativa allo scioglimento è la separazione. Come se ognuno fosse potenzialmente un anello debole della catena. Solo allora nascono i drammi o, semplicemente, la gente comincia ad ignorarsi, fare l’assenteista, trovare altri giri… e l’associazione scompare senza colpo ferire. Due morti dunque paiono attendere le associazioni: la morte per inedia e disidratazione oppure quella dovuta a “violenze familiari”, scissioni interne, vere e proprie faide (non dimentichiamo la radice comune di faida e feudo, basati entrambi sul previo sussistere di rapporti di fiducia e fede). Un po’ come se il gigante d’acciaio smettesse di funzionare perché, nonostante tutta la sua forza, i due piloti del robot hanno cominciato a bisticciare per futili motivi (“smettila di fumare nell’abitacolo!”).

Non paventiamo, però, poiché esisterà sempre questo dilemma: ogni istituzione punta a sopravvivere a se stessa, ma dove collocare l’individuo? Talvolta vale la pena alimentare un legame forte finché possibile anziché rinunciarvi in partenza e togliere tutto il divertimento. Del resto, perché condannare — benché difettose — le nostre esperienze di condivisione più radicali… cioè quelle che, soprattutto se condotte a fin di bene, paiono renderci migliori? Non è dunque per terrorismo che ho condotto la mia analisi, ma per la curiosità di sapere come potrebbero andare a finire le cose.

…Ma insomma, come ragionano questi gentiluomini australiani?

Al Port Melbourne Yacht Club non accade nulla di quanto descritto nei due precedenti paragrafi. Questo sistema mi spiazza perché, come dicevo, da buon Italiano (o forse da buon Andrea Marcelli) considero ogni attività come un corso di lingue: pagare, seguire lezioni regolari, imparare (ovvio!) e alla fine sostenere un esame — possibilmente divertendosi durante l’intero processo. La vita però non è fatta di esami e, anche se questi ultimi offrono una certificazione “spendibile”, rimane l’idea per cui “non dovrebbe essere il contratto a dare valore all’immboile, bensì una caratteristica dell’immobile stesso a conferirgli valore”.

Il Club, come anticipavo, ha una rimessa per le barche ben fornita (i catamarani però stanno all’aperto, poiché è troppo difficoltoso disalberarli ogni volta). L’interno è di legno e ci sono anche spogliatoi per uomini e per donne, con docce da squadra di calcio. L’edificio principale si divide in due piani: quello inferiore è dedicato a feste e ricevimenti (principalmente matrimoni: il Club coesiste infatti con un servizio di organizzazione feste, poiché gli Australiani amano organizzare feste d’azienda, sposalizi etc. in riva al mare). Il piano superiore è il Club vero e proprio, con tanto di bancone da bar, tavolini, lavagne, bollettini meteo, computer, quotidiani, targhe commemorative e, in una sua propaggine, una torre di controllo attrezzata dalla cui vetrata si domina la baia.

Per essere ammessi è necessaria la nomina di due membri. Il processo è tuttavia informale e, anzi, tutti i “vecchi” fanno un punto d’onore nel conoscerti e, per così dire, valutarti. Chi però negherebbe l’accesso a qualcuno in un gruppo che non ha come prerequisito l’esperienza pregressa? La nomina equivale dunque a dire: mi sono presentato e ho iniziato a fare conoscenza di chi c’è dentro. Equivale a dire: ho mosso il mio primo passo. L’importante è non immaginare nulla di tutto ciò che solitamente associamo alla parola “club”. Di certo sono esistiti “club” d’élite, ma da queste parti Yacht Club non significa: miliardari che bevono drink e discutono circa chi abbia la barca più grossa. Il Club è un qualcosa di essenzialmente diverso: in primo luogo, i membri sono tutti alla pari, anche se informalmente c’è chi è ritenuto più esperto di altri. Inoltre, vale la pena fare la conoscenza di tutti, perché non si sa mai. Il club è il luogo anglosassone per eccellenza dove si azzera il ceto sociale (opera, professori, imprenditori… tutti assieme a bestemmiare contro una folata a 30 nodi). L’unico vero prerequisito è dunque un vago e imprecisato senso di rispettabilità.

Il club non è altro che la base comune di una serie di gruppi che, grandi o piccoli, vi si muovono con flessibile vivacità. La famigliola che ogni sabato porta un piccolo rinfresco e si occupa del proprio natante. Gli esperti che ormai hanno costruito un team imbattibile — per la gloria comune. Padri che insegnano ai figli o che semplicemente ne condividono gli stessi spazi. Marinai, pensionati, giovanotti, ragazze, etc. Come dicevo, però, flessibili: ogni tanto manca qualcuno, nuovi gruppi nascono e muoiono anche nell’arco di una giornata. Poi tutti si danno una mano: c’è sempre qualcuno d’esperienza disponibile per controllare l’armo della barca o insegnare l’ultimo trucco per sfruttare meglio il vento.

Un’altra caratteristica per me insolita è che tutti tendono a condividere gli stessi orari. Difficilmente qualcuno prenderà in mano la barca in giornate diverse dal mercoledì o dal sabato. Questo, proprio perché in quei giorni sono disponibili i gommoni di salvataggio (in cui ognuno deve prestare servizio a turno). Non si sa mai.

Vige inoltre un senso di competitività che ha stupito perfino il mio relatore (Scozzese). Pare però che questa sia un’idea quasi unicamente australiana. Non ha senso per l’Australiano veleggiare senza un obiettivo preciso. E’ pur vero che quando si naviga è sempre opportuno (se non obbligatorio) avere una meta (o almeno prefiggersi degli obiettivi a breve termine). Tuttavia qui sport è sempre sinonimo di gara, competizione. Il sabato, la gente si divide in categorie e affrontano assieme diversi percorsi tra le varie boe. Così, tanto per gradire. Segue a fine giornata un debriefing con tanto di premiazione settimanale (a mezzo bicchieri di vetro col simbolo del club), qualche battuta sui fatti divertenti (che non colgo mai). Ecco, a me fa un po’ ridere questa storia dei bicchieri, perché non ha decisamente senso ribadire ogni settimana chi è arrivato primo oppure no. Cos’è questa buffonata? Le squadre saranno 10 al massimo… non basta l’onore? Serve pure l’oggetto? Bah. Però in fondo in fondo non mi dispiacerebbe un bicchiere, tanto per collezione (forse sto iniziando a convertirmi?). D’altra parte resta comunque un bel momento, quello del ritrovo finale, del “raffreddamento” dopo la regata. Si mangia un panino, si beve una birra. Quattro chiacchiere ed è fatta.

La mia posizione

Com’è dunque, fatte tutte queste considerazioni, che dopo 3 settimane (due effettive) e una tutina aderente appena comprata, non ho ancora messo piede su una barca a vela? Che diamine, eccoli i problemi: siamo alla fine della stagione; gli equipaggi sono di per sé già formati, perciò si può solo contare su assenze improvvise per trovare un posto nella barca di qualcuno; inoltre, ho il sospetto che qualcuno sia segretamente geloso dei suoi record e, anche se auspica che tu trovi un posto (per amor di cortesia), non te lo offrirebbe mai. A ciò si somma il fatto che un esperto fa più gola di un dilettante e, forse non troppo inconsciamente, questi inguaribili competitori lo sanno che non si fanno acquisti dalla rosa juniores a fine campionato.

Detto questo, resta evidente che mi trattano col guanto di velluto. Se voglio, c’è sempre un posto sulle barche di salvataggio (e, lasciatemelo dire, è bellissimo ma ci si spezza la schiena… tutto un andare avanti e indietro, controllare, recuperare ancore e gente finita a mare. Di certo non ci si annoia!).

Da un lato, sono troppo vecchio per fare “scuola” il sabato mattina con i ragazzini delle medie. D’altra parte, potrei chiedere l’uso di una delle barchette di proprietà del club (in quanto socio)… ma è prassi che uno faccia prima esperienza a bordo con altri. Quest’ultima cosa però mi pare preclusa dal fatto di essere a fine stagione (diamine!). L’ammissione diretta a membro fa sentire la mancanza di un’anticamera per i catecumeni, dove si possa fare l’esperimento senza per forza entrare in graduatoria… come se in certi videogiochi mancasse il tutorial.

Non mi resta che fare affidamento sul fatto che potrò partecipare alla formazione degli equipaggi in primavera e perciò garantirmi ben più di un posto fisso per un anno intero! Come se non bastasse, ieri il vento tirava a 20 nodi, ma per qualche ragione si rischiavano raffiche fino al 30% in più e perciò pochissimi si sono avventurati in mare. Ho dunque fatto un pasto dignitoso, salutato tutti, presa la macchina e… ma come al solito questa è un’altra storia.

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