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Diario d’Australia 6: Il mal del viaggiatore

Quando mi apprestai a scrivere l’ennesimo Diario d’Australia, aprii blogger e creai un brouillon, cioè una bozza — la mia interfaccia è in Francese. Credo che il “brouillon” sia ancora lì.

Forse non sono ignoti i motivi della mia scostanza… Tuttavia col tempo ho individuato una correlazione notevole tra la grandiosità di un progetto e l’incapacità di portarlo a termine. Volevo scrivere il post del secolo, così ho finito per non scrivere proprio nulla.

Poiché però questo è un mondo alla rovescia, questo è vero per molte cose ma, fortunatamente, non per la mia tesi. Sebbene ambiziosa, resta un lavoro che avanza a piccoli passi consolidati, come credo dovrebbe essere. Oggi, ad esempio, c’è stato un momento di svolta importante, ma c’è ancora molto da fare.

Dato questo per assodato, propongo la mia nuova modalità di redazione dei post. La pigrizia c’entra qualcosa, perché a quest’ora sono insolitamente stanco e non accenderò il pc. Insomma: ho deciso che scriverò i miei post sul BlackBerry.

Noterete che il problema non è la lunghezza, poiché, data l’occasionalità del posting, non mi sono mai sentito esentato dall’offrire profuse riflessioni e considerazioni sulle mie avventure e i fatti della quotidianità. Tuttavia è chiaro che mi fermerò quando i crampi alle mani saranno insostenibili — dando dunque un’aura di dignità e sacrificio a ogni testo della “buona notte”. Metto però le mani avanti: il T9 del BlackBerry è così canchero che, qualunque sia il linguaggio di input, continuerà a proporre le stesse soluzioni sbagliate. Lavora di statistica, il bastardo. Se scrivo “perché” mi proporrà sempre, in quest’ordine: “perchè”, “perché” e “perche”. Ironicamente, se scrivo solo “per” mi suggerirà anche “perché” (dizione corretta) e “persone”. Come dicevo, il bastardo lavora di statistica, ma non ho compreso fino a che punto sia adattivo, cioè fino a che punto apprenda gli usi e i malcostumi dell’utente. Ritengo infatti di primaria importanza che ogni macchina, in quanto tale, rispecchi le cattive abitudini del suo usufruitore. In questo senso, “talis pater, talis filius” dovrebbe essere un principio informatico — o almeno ingegneristico. Gli Americani, che hanno una parola per ogni occasione (ma, molto infelicemente, non hanno un’occasione per ogni parola), direbbero: se dai in mano a una scimmia una macchina da scrivere non scriverà mai l’Amleto. Ho detto Americani? Forse avrei dovuto dire analitici (Leonardo Marcato mi capirà). Resta tuttavia lo scrupolo: e se invece di affidarle una macchina da scrivere, che mal si adatta alla sua ergonomia e alla sua forma mentis, mi limitassi a includerla in un più ampio programma artistico, magari con l’ausilio di nuovissime tecnologie di mind-reading? Sicuramente la scimmia non scriverà l’Amleto, né capirà di “dare un contributo” nel senso da noi comunemente attribuito a questa espressione… Tuttavia ne vedremo certamente delle belle. Il Mulo di Asimov è alle porte, e la sua melodia è dolce e arrendevole.

Ciò detto, veniamo a qualche fatto di cronaca. Avrete notato (è già capitato a molti utenti facebook che si interfacciano con il mio profilo), che da tempo mi servo, all’occasione, di espressioni francesi. Voglio dunque rendere chiaro che non si tratta di una boutade, né che in qualche modo io abbia rivisto — come dire? — positivement la mia expérience parisienne. Pas du tout. En fait, ciò che ci tengo a precisare, tra amici, en plein air, è che per motivi accademici e du voyage ho ripreso in mano mes anciens études e, tête sur les livres, mi sono dedicato à l’approfondissement della lingua dei Galli transalpini o, au moins, di quel che ne rimase dopo les invasions romaines, la guerre et la révolution. Olè! Uh la la… Pois, artichauts, crêpes, cognac, poubelles et maigret de canard.

Così, decisi di iscrivermi all’Alliance Française di Melbourne. E’ un bel palazzone falso liberty a St. Kilda — quartiere noto per le sue spiagge, ma che in un certo senso vive sulle rovine di un glorioso passato Belle époque.
Nel Secondo Dopoguerra, alle famigliole medio-borghesi si sostituirono gli hippy e i frikkettoni. La zona conobbe così un fumoso (sì: fumoso) revival in chiave floreale, benché non mancassero esimie punte di australianità (il surf), di anglicità (gli yacht club) e, naturalmente, di oceanicità (meduse, squali, etc.).

Per capire St. Kilda, dovete figurarvi una specie di Portorico a modo… Io non ho mai visto nemmeno una foto di Portorico, ma sono arci-sicuro che l’analogia sia calzante. Insomma: il lato felice del Caribe, l’eleganza casereccia delle Antille coloniali, i distillati de la cana de azúcar. Il Cat sa di cosa sto parlando: è andato a Cuba in Luna di Miele.
Anche un Hemingway non sarebbe sfigurato a St. Kilda, seduto nella veranda del palazzo coloniale fronte mare e intento a rovinarsi il fegato con costosi cocktail a base di alcolici d’importazione — e come dargli torto? Mica si fa pesca grossa in Australia!
Fatto sta che St. Kilda conserva tale fascino retro con qualche punta di degrado e modernità. La prima è data dagli ostelli poco raccomandabili e dalle prostitute (tutte anzianissime) che passeggiano a bordo strada (ad es. davanti all’Alliance Française). La seconda è data invece dai pattinatori della domenica, dalle famigliole col cane e dalle coppie di truzzi che si colorano al caldo e cancerogeno sole del Sud.

Una piccola nota sugli ostelli poco raccomandabili
Sento già cori di voci che si levano in difesa di mirabolanti soggiorni immersi nella salsedine di Port Phillip Bay. Invero, vi prego di considerare la presente non come una guida turistica, ma al massimo come una guida di stile. Sono infatti abbastanza fiducioso che si possa trascorrere una piacevole vacanza in numerose strutture alberghiere low cost. Si narra inoltre che la qualità degli ostelli stranieri surclassi il lerciume nostrano. Scrollata di spalle: in Italia non sono mai stato in un ostello, ma posso tuttavia confermare l’igiene canadese e l’ampia accettabilità delle controparti australiane.
Fatto sta che, probabilmente, in un ostello di St. Kilda non verrete molestati, né farete brutti incontri. Naturalmente, c’è la famosa storia dell’omicidio… Ma non mi dilungherò, poiché ne è accaduto uno in vent’anni (e più) — e pare si sia trattato di una resa di conti tra Irlandesi.
Come però osserva il buon vecchio Nik, in certi ostelli bisognerà confrontarsi con quella categoria di persone denominate “residenti a lungo termine”. Al riguardo, le pratiche si dividono. Alcuni ostelli scongiurano il fenomeno accettando solo ospiti internazionali e vietando i soggiorni superiori a un mese. Altri, invece, ne fanno una ragione di lucro. Talvolta, dunque, vi sono delle persone che decidono di risiedere a tempo indeterminato in un ostello di loro scelta.
Sarebbe un errore correlare in modo biunivoco questo ceto sommerso ai soggetti che, quando cala la sera, si aggirano per St. Kilda. Questi ultimi appaiono irrimediabilmente sporchi, devastati dalla vita e dagli abusi… Hanno trent’anni ma ne dimostrano 50.
Premesso dunque che il residente permanente non necessariamente coincide con questi soggetti, Nik ha osservato — dopo anni di esperienza come banconiere in un ostello di North Melbourne — che i “permanenti” hanno “qualcosa,” a suo dire, “che non va”.
Il ragionamento è semplice: in Oz, un letto in ostello costa $20-27 in camerata (minimo quattro letti, massimo N = grande a piacere). A Sydney abbiamo osservato che le doppie non costituiscono un congruo risparmio perché alla fine si sbolognano comunque $50-65 in due. Poco male. Se tuttavia consideriamo che il costo giornaliero della mia camera all’Uni Lodge (College universitario) rientra nei 27 dollari (utilities incluse: acqua, gas, luce e internet), la scelta di questi permanenti appare quanto meno insensata. Idem per le case: l’affitto settimanale ha punte al ribasso di $140. Ho udito pure di posti a $90… Ma paiono leggenda. Pertanto è confermato: l’ostello non è necessariamente la residenza più economica in città.
Inoltre, l’ostello ha anche alcuni major drawback che non pesano al viaggiatore occasionale, ma che condizionano certamente la vita a lungo termine. Sto parlando della privacy. Lachlan, William e Ross ricorderanno con un simpatico sorriso quella volta a Wollongong in cui l’energumeno, mezzo ubriaco… Beh, avrete capito che quella notte nessuno ha chiuso occhio [N.B.: forse è anche PEGGIO di quanto possiate immaginare].
Fin qui, le vicissitudini del viaggiatore a budget limitato, le quali comunque sono statisticamente poco rilevanti (il sottoscritto, Canada, 10 ostelli visitati, mai avuti problemi o ragioni di imbarazzo). Che dire però della privacy del residente permanente? Ci affidiamo alle parole di Nik: “Sono scelte di vita che purtroppo non capisco, pur essendoci convissuto per qualche anno”.
Andrea: “E’ mai capitato un furto?”. Risposta: “Una sola volta, ora che ci penso. Un laptop… Ma era una situazione abbastanza ambigua”. Mi ripete: non c’è nulla da preoccuparsi, ma a molti un clima sciatto e sospetto come quello che c’era nel suo ostello semplicemente potrebbe non piacere.

Chiudo ora la titanica parentesi “ostelli”, che ha riportato una conversazione avuta sul pianoro che da Canberra conduce a Sydney. La Hume Highway non è mai stata una passeggiata, in termini di tempo.

Sunto: St. Kilda, palazzone liberty-coloniale, prostitute in età pensionabile agli angoli delle strade (attaccano alle 7 di sera… Perché in Australia si mangia con le galline). Sorvoliamo sullo “scortum explotum” plautino (ci provo gusto a dare un tono di degrado al post mentre, in realtà, ci ho messo 3 mesi ad accorgermene: Oz è un Paese discreto).

L’interno dell’Alliance è di una raffinatezza ricercata. Parquet rossicci tirati a lucido, stucchi bianchissimi agli angoli delle pareti, mostre d’arte occasionali, personale gentile e disponibile. C’è una biblioteca fornitissima per i soci. Una stanza caffè, dove fare i compiti e guardare France24. Inoltre, c’è l’asilo per i bambini e… perché no? Una salle au bain d’antan con tanto di piastrelle e tazza con elaborati temi floreali di inizio secolo.
Qualche volta mi sono chiesto se semplicemente non abbiano imballato un palazzo della Rive Gauche e lo abbiano spedito via nave. Mi piace però pensare che la magione abbia acquisito uno stile francese come conseguenza del gusto dell’architetto prima facie, quindi degli acquisti dei vari proprietari, in un’epoca in cui il solido stile Mexican era alieno alla Melbourne in espansione: pertanto, mobile dopo mobile, rubinetto dopo rubinetto, sono stati fatti giungere suppellettili e arredamenti dalla madrepatria transalpina anzichè, come si soleva tra coloni, dalla perfida Albione. Dovrò informarmi meglio.

Questo edificio è importante perché vi si trova la mia insegnante di Francese.
Quando mi trovavo a Parigi ho osservato come molte donne francesi abbiano la caratteristica di invecchiare particolarmente bene. Con ciò, non intendo dire che siano immuni ai segni dell’età, tuttavia pare talvolta difficile distinguere tra i 45 anni portati benissimo o i 30 portati male. La mia insegnante, rientra pienamente in questa categoria. Più per scienza che per cortesia, la mia stima ufficiale è 32… Tuttavia, come appena illustrato, con le Francesi non si sa mai.
Proviene dal Nord, ma non è una Ch’Ti. Anzi, è quasi Belga a dire il vero. Sì: nel 1624 non avrebbe sfigurato come moglie del fornaio nelle Province Unite delle Fiandre, anche se chiaramente è più un soggetto da Velazquez che da Ragazza con l’orecchino di perla.
So bene che nell’affidare al mondo questa mia descrizione alimento la maliziosa fantasia dei miei amici italiani. Il fine, però, è un altro. Si tratta di tracciare uno schizzo del personaggio. Tra le varie informazioni, ad esempio, ho colto il fatto che si ritiene in soggiorno temporaneo… Con la speranza di approfondire il proprio inglese. In effetti, quando mastica lemmi sassoni, ha uno degli accenti migliori che abbia mai udito. Ho detto migliore: non ho detto “inglese”. Mi incuriosisce questa situazione di discenza/docenza. Mi sento in una condizione analoga: cosa spinge una donna di una certa età a mollare tutto e…? Mah, si tratta — credo — di mistificazioni: so benissimo cosa ha spinto me a venire qui all’alba dei 26 anni. Non mi stupirei affatto se qualcuno avesse trovato un’occasione simile un po’ più tardi.

L’aneddoto è il seguente. Dovete sapere che, a causa della mia insicurezza cronica maturata tra il Luxembourg e la Défense, io dipendevo totalmente da lei per la mia autostima studentesca. Lei, chiaramente, non ne aveva idea… e credo che tutt’ora ignori la natura di questo transfer-senza-t (formativo, dunque: non psicoanalitico).
Pare però che la mia pronunzia sia abbastanza irrecuperabile. Non me l’ha detto francamente, ma me l’ha fatto capire. Ovvio, ci sono sempre margini di miglioramento, ma porterò sempre con me la macchia della peninsularità mediterranea. A riprova del fatto che l’Italia non è una semplice “indicazione geografica“, bensì una “indicazione geografica tipica“.
La cosa mi ha abbastanza preoccupato, anche perché al mio orecchio l’Australiano ha veramente un accento orribile. Appunto: il suo è un problema di accento, ma in quanto Inglese è altamente sensibile alla sottile differenza dei fonemi di matrice vocalica, mentre il sottoscritto, nonostante la lunga pratica anglofona, difetterà per sempre di una certa finesse. La questione è la seguente: il sottoscritto è nativo di una lingua (l’Italiano) che fonda la propria semantica sulle consonanti e sulle desinenze; inoltre, il sottoscritto è competente in una lingua (l’Inglese) la cui semantica dipende solo parzialmente dalla variazione fonetica, la quale, seppur presente, è soppiantata da un titanico vocabolario e una rigida struttura sintattica (che consente di intuire facilmente i termini mancanti in una frase). Che dire invece del Francese? Esso, a livello di vocabolario, non costituisce una sfida… Tuttavia si fonda su un labirinto di omofoni e falsi omofoni (per un Italiano), al punto tale da aver sviluppato una scrittura complessa in cui, nonostante le numerosissime accentuazioni, l’omografo resta un elemento di rischio.
Certo, la speranza è l’ultima a morire. Tra le varie cose, mi ha suggerito di ascoltare il Rap. Forse ha in mente qualcosa Old School… perché a me, senza offesa, pare che tutti i professionisti attuali nel settore siano mezzi immigrati e padroni di un gergo per loro quotidiano, ma forse non colloquiale per le vie di Parigi. Lei mi assicura che non è così e che potrò inoltre apprendere molte espressioni di uso comune.

Peccato che nell’esame DALF C1 sia richiesta un’esposizione accademica. Mi scuserà, pertanto, se per un po’ mi dedicherò a Radio France Culture. 😉
In ogni caso, alla fine del corso sostiene che non dovrei avere problemi e che altri corsi nella mia vita sarebbero inutili, perché le scuole in genere non offrono livelli così avanzati molto meglio andare in Francia, guardare la tv o leggere un romanzo.

…Dunque, qual è il problema? Incrociamo le dita.

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