Una primissima modalità di intendere il passato è quella che lo considera privo di relazioni con l’oggi, e proprio questo parrebbe essere il caso, per chi osservi, distrattamente, le immagini che ci sono rimaste dei campi di concentramento. Ecco che vi è chi potrebbe dire che, certamente, è un bene ricordare quei fatti, ma che essi, in fondo, non sono che un passato che non ci appartiene più, privo di alcuna incidenza sulle nostre giornate e sui loro problemi reali. Considerate in quest’ottica, quelle immagini in bianco e nero vengono semplicemente giustapposte alla gamma delle altre che – prendendo in esame il corso del nostro pianeta – testimoniano accadimenti di una storia tanto remota da risultare aliena rispetto a noi (presunti uomini civilizzati, democratici, ecc.). Quei corpi nudi con la loro magrezza, quei volti, vengono, allora, intesi come dei fossili, con la diretta conseguenza che lo stesso interesse avvertito nei loro confronti è quello tipico dello specialista che si occupa, spinto da un’inclinazione personale, di fenomeni al di fuori della portata dei più. Questa modalità precipua di intendere il passato viene, del resto, continuamente richiamata dal senso comune quando questo afferma, ad esempio, che, per superare un dolore, occorre lasciar fare al tempo; sarà quest’ultimo, infatti, a sottrarre energia e vita ad un certo fatto, e, così, facendo, ci permetterà di riconsegnarci al nostro presente. Il tempo, come noto, è medico. E, quindi, “canta che ti passa”. Nient’altro.
Tale prima forma di passato – e di ricordo – ne richiama poi un’ulteriore: quella tipica di chi, questa volta, alla vista delle immagini poc’anzi menzionate, non fa che distogliere lo sguardo. Inorridito, l’osservatore, non fa che guardare altrove. Dal passato, ora, si fugge, ce lo si lascia alle spalle, anche qui richiamando, forse, la giustificazione che, in fondo, si tratta di accadimenti che non ci riguardano, compiuti da delle persone spregevoli in un tempo lontano. Si noti un meccanismo psicologico che qui è in gioco: quanto meno si vuol guardare l’orrore, quanto più si separa, si distanzia, il presente dai crimini che il nazismo ha posto in essere. Il passato ci serve così da alibi, in quanto proprio noi siamo quelli buoni, senza colpa.
Ma è proprio questo il significato ultimo del ricordo? Davvero queste due prime modalità (molto vicine tra loro, del resto) colgono nel segno la portata del ruolo che riveste il passato nei confronti dell’essere umano? E, ancora, che cos’è propriamente un ricordo? Davvero il ricordo ha a che fare con un qualcosa che, cristallizzatosi, non è più tale? Ebbene, da parte nostra, vogliamo focalizzarci sulla metafora del ponte: nel ricordo vi è sempre un ri-accordare il presente con il passato: così inteso, il passato non può più essere considerato quale quell’ambito che non è più a nostra disposizione, per divenire, a ben vedere, ciò che sostanzia il presente. Da pallido ectoplasma, il ricordo coincide ora con lo stesso presente, fa tutt’uno con esso. Vediamo meglio: dobbiamo, anzitutto, chiarire che il presente è sempre e solo l’unica dimensione temporale con cui abbiamo a che fare, ma questo non nel senso banale per il quale il momento, l’attimo, è l’immediato, il qui ed ora. Al contrario, la natura del presente è quella di dilatarsi, sino ad abbracciare, tendenzialmente, il remoto passato ed il futuro. È Luigi Tenco, fra gli altri, a chiarirci l’importanza che il presente riveste per il futuro, nella forma del ricordo di una persona, della quale, “lontano, lontano nel tempo”, ci troveremo a parlare “chissà come e perché”. Quel futuro del quale Tenco ci parla – una volta divenuto presente – è tale da contenere il suo stesso passato, da saldarsi con esso. Le persone che la vita ci ha posto accanto – e poi ci ha tolto – non hanno mai esaurito la loro importanza per noi: sempre, infatti, ci guidano, attraverso il loro esempio, attraverso le parole che ci hanno detto, o, volendo guardare in faccia il negativo, continueranno a farci del male, ecc. È, dunque, compito nostro il valorizzare quanto di buono ci hanno consegnato, oppure lottare per consegnarle alla latenza (una latenza che, per quanto si possa avvicinare allo zero, non potrà mai coincidere con esso): questo significa abitare il presente. Questo significa essere vivi.
Da quanto abbiamo detto, dobbiamo allora cominciare a comprendere il nazismo ed i suoi crimini come il nostro stesso presente: anche oggi, infatti, abbiamo a che fare con delle situazioni nelle quali la pulizia etnica, il lavoro forzato e lo sfruttamento, ci restituiscono gli equivalenti di quelle immagini in bianco e nero dei campi di concentramento. Non possiamo certo dire, come accade con la prima modalità di guardare al passato, che quelle fotografie non ci riguardano: purtroppo non vi è che l’imbarazzo della scelta nella ricerca degli equivalenti, dei “doppioni”. Ma, ora, neppure possiamo concederci il lusso di “guardare dall’altra parte”. No, tutto ciò che dobbiamo fare è focalizzarci sul ventaglio di crimini che il nazismo ci ha consegnato, per vedere dove essi siano tristemente attuali, e questo non certo per una mera curiosità, ma per sforzarsi di rimuoverli.
L’orrore va, dunque, guardato fino in fondo: nell’orrore ci si deve tuffare: anche quanto – ipoteticamente – l’orrore fosse sradicato dalla storia, esso continuerà ad esistere, tuttavia, presente, nella forma di un qualcosa che pur abbiamo conosciuto, e che è bene ricordare per non ripercorrere gli stessi passi.
Marco Tuono