LA GUERRA DEI POMODORI
Un suono secco, metallico, boicotta all’improvviso il concerto che i grilli hanno messo in scena per un pubblico di oltre un milione di pomodori che tacciono. Qui la notte pullula di rumori: ho faticato ad abituarmi. Nel mio Paese le notti sono silenti come questi pomodori, o forse no, non ricordo. Siamo partiti dal Sudafrica due anni fa, quando la rivoluzione bussava un po’ a tutte le porte: Sankara, Mandela, e poi Bantu… qualcosa si muoveva, qualcosa di grosso, e tutti attendevamo col fiato sospeso, pronti alla sommossa. Poi il colpo di Stato, la violenza degli scontri, gli sguardi dei militanti che parlavano: “Da che parte stai? Sei pronto ad uccidere per il tuo Paese?” indagavano in silenzio vedendoci smarriti, e abbiamo capito che, in fin dei conti, pronti veramente non lo saremmo mai stati, così siamo partiti. Dopo due giorni su un fuoristrada sgangherato che tagliava la steppa esattamente come tranciava la mia spina dorsale, siamo arrivati a Lusaka, Zambia. Il sole incoronava appena gli alti palazzi e il nostro stupore s’inchinava di fronte alla città. Ci hanno ospitato dei lontani cugini: abbiamo parlato a lungo ma una sola è la parola che ricordo, Europa. Poi è tutto un susseguirsi di immagini, ricordi tatuati nella mente: le frontiere passate di notte, la steppa, il deserto e poi l’Oceano, e quella scialuppa della nave cargo che ci pareva l’emblema della libertà anche se a malapena ci si stava in due: mio fratello ed io. Alla fine, l’ultimo fotogramma di quel film assurdo che è stato il nostro viaggio, quello che non mi sarei mai aspettato: Port Harcourt, Nigeria, e un volo imprevisto per Roma mi ha insegnato a mie spese che ogni guerra, ogni rivoluzione è un ospite inatteso, che non bussa mai: la porta la sfonda. Un suono secco, metallico, disturba la luna, e poi voci nel caldo della notte. Siamo scappati da un Paese macchiato dalla rivoluzione, e me ne ritrovo un altro che se n’è insozzato fino al collo, con la guerra, quella delle carte e quella dei pomodori. “Come hai detto che ti chiami? Jerry e poi?” Lo fisso con espressione ebete: sento tutto ma è come se non sentissi niente. “CO-ME-TI-CHIA-MI?” ripete il segretario a voce più alta. “I’m foreign, I’m not deaf: I can’t understand your language although you speak louder!” sparo tutto d’un fiato. Sono nervoso: è il sesto ufficio in cui entro e la scena è sempre la stessa. “Ah ok… allora… ehm… your surname?” “Masslo, my name is Jerry Essan Masslo” “Ah ecco… ok… and where are you from, Jerry?” “Umtata, Sudafrica”. Goodbye. E’ il sesto ufficio in cui entro e la scena è sempre la stessa: io chiedo l’aiuto e la libertà che mi spettano, loro fanno domande, io rispondo, poi quella parola, geographic limitation, e resto an illegal-men. La battaglia delle carte l’ho persa da solo, ma in quella del pomodoro mi ci hanno ficcato i soldi, ed è stato uno scontro lento e crudele: l’alba, la “piazza degli schiavi”, i caporali che ogni giorno in quella piazza trasformano la regione del sole nella terra de’ fuochi, terra di Gomorra. E poi il sudore, il caldo rovente dell’estate, e avanti così per ore e ore, per cosa poi? Due spiccioli e una notte nel letto dell’umidità? E ancora respiravo quell’aria che c’è laddove si trova malcontento, e la rivoluzione mi ha raggiunto ancora una volta: “E’ aperta la caccia al nero[…]data la ferocia di tali bestie […]si consiglia di operare battute in gruppi di almeno tre uomini”. Un suono secco, metallico, stordisce i nostri sogni all’improvviso, qualcuno si agita nel sonno, molti si alzano.“SVEGLIA, CANI ROGNOSI! Forza, cacciàt fori tuttì e’ denari ca’ avit!”. Mi viene quasi da ridere. Pochi cedono, la maggior parte si rifiuta. Un colpo, e Bol è disteso per terra. Scoppia un pandemonio. Due, tre, quattro colpi e pure io mi trovo disteso accanto a lui. Ho perso anche la guerra dei pomodori, o forse no.
(di IRENE DALLA NORA – racconto breve)