Un sieropositivo, un tossicodipendente ed un fumatore (ma la lista potrebbe continuare a lungo) possono avere qualcosa in comune. Il filo rosso che lega queste figure dev’essere, infatti, riscontrato nella cifra dello stigma: questo ventaglio di figure mostra – quando si ha a che fare con determinate condizioni – di essere catturato dallo sguardo dell’altro, un sguardo che non si limita a registrare, come il colpo d’occhio che si posa semplicemente sulle cose. Al contrario, lo sguardo in questione, si sofferma, soppesa e giudica. Vi faccio alcuni esempi.
Per quanto concerne il primo caso, quello del sieropositivo, abbiamo che il paziente può avere a che fare con un ombra che lo accompagna, e che si cristallizza nella convinzione – sempre più diffusa di quanto si creda, o si sia disposti ad ammettere – che, in fondo, la persona meriti la sua condizione. Lo snodo fondamentale, il pensiero portante di questo intendere è che si sia liberi di decidere le proprie scelte: chi è oggi sieropositivo aveva un tempo tra le mani le redini del proprio futuro. La colpa è sua. Si pensi alla dicitura “comportamenti a rischio”; ebbene, attraverso di essa si vuole certamente allertare la gente, mettere un segnale di pericolo, per così dire, sperando che ciò configuri un deterrente sufficiente. Ma vi può essere anche l’altra faccia della medaglia: se un comportamento è “a rischio” ed io intraprendo (consapevolmente?) tale strada, allora i risultati saranno ascrivibili solamente a me. Soltanto io sarò stato, in altri termini, l’artefice del mio destino.
Ricordo una scena che ho visto una volta in un bar di una stazione: una coppia seduta ad un tavolino, un uomo ed una donna. Lei, visibilmente in crisi d’astinenza. Questa coppia ha una discussione con la barista – che riporto brevemente ed in italiano -, la quale lamenta il disturbo recato dai primi due agli altri clienti. Il ragazzo, in particolare, cerca di farla ragionare, dicendole che l’ambulanza sta arrivando e che, quindi, se di disturbo di stratta, ne hanno ancora per poco. La sarabanda si conclude con la barista che sostiene – parlando a voce alta, per farsi sentire da chiunque – di non essere interessata alla condizione della ragazza, e che a lei non dispiace per niente (sempre rendendo la cosa in italiano). In fondo, se l’è cercata: qui vanno a terminare le motivazioni della barista. E implicitamente, lei sta facendo un confronto tra la sua vita – di persona responsabile, che lavora fino a tardi, magari controvoglia, ecc. – e quella della ragazza in attesa dell’ambulanza. Una riproposizione odierna della fiaba della cicala e della formica. Sieropositivi, tossicodipendenti pongono in essere delle azioni e ne portano la responsabilità. Così, almeno si dice, ma è poi così? Prima di rispondere, veniamo al terzo caso, quello del fumatore.
Il fumatore, che pare tanto essere l’intruso nella lista, ha a che fare, a ben vedere, con lo stesso filo logico dei ragionamenti fin qui esposti. Vediamo meglio: facciamo riferimento alla seguente ipotesi. Detto fumatore contrae un tumore ad un polmone e viene messo in lista trapianti: e qui nasce una discussione – sul piano bioetico – in merito alla posizione che egli deve occupare nella lista in oggetto. Che decisione si deve (si badi: eticamente) prendere? Vi è chi dice che non va tenuto in considerazione il suo stile di vita: che egli fosse, per es. un fumatore accanito, non cambia niente. Ma vi è anche chi sostiene il legame profondo tra il suo comportamento e la malattia: se egli non avesse fumato, non si sarebbe ammalato. Si noti come – e qui mi riferisco anche all’AIDS – si vengano a creare due categorie di pazienti: quelli “buoni”, ovvero quelli che si sono ammalati loro malgrado, e quelli “cattivi” che si sono ammalati seguendo la propria libertà. Con HIV ed AIDS questo modo di pensare è lampante: da un lato, vi è chi ha contratto la patologia a seguito di una trasfusione o dal dentista. E, dall’altro, vi sono tutti gli altri: tossicodipendenti, omosessuali, ecc., e la barista poc’anzi menzionata – la quale sono convinto sia una brava persona, una persona come ce ne sono tante, con i suoi pregi e con i suoi difetti, ma chi non ne ha… – sta facendo col capo dei cenni di approvazione.
Usciamo ora dalla lista: vi porto un ultimo elemento. Si tratta dell’epilettico: voglio qui guardare a questa condizione non nell’ottica della medicina a carattere scientifico, “occidentale”, ma osservarla secondo quanto di essa pensavano gli uomini dell’antichità (e tali credenze sono, tuttavia, vive in determinate culture oggigiorno). Ebbene, l’epilessia viene così intesa nel segno dell’intervento di una particolare divinità: è, infatti, questa a far cadere le persone, a provocare le convulsioni. Ora il percorso della malattia è l’inverso di quello presentato nei casi precedenti: se prima la malattia era oggetto di scelta (perché ci si collocava sul sentiero dei comportamenti a rischio), ora la malattia è un destino. Si è scelti dalla divinità – e dalla malattia. Si dirà che si tratta di convinzioni arcaiche, del tutto superate, davanti alle quali non si può non sorridere (nella migliore delle ipotesi). L’epilessia, come sappiamo, ha una sua matrice biologica, ecc., e, tuttavia, vi è qualcosa in questo modo di ragionare che ha il potere di convincerci. Vediamo meglio.
L’idea per la quale si è responsabili della propria malattia è squisitamente moderna, derivante dalla centralità che la Modernità filosofica attribuisce all’elemento della coscienza (e, dunque, alle decisioni, ai progetti di vita): se essa può sembrare – all’inizio – plausibile, smette di esserlo una volta che si provi ad estendere questo modo di ragionare ad altri ambiti. Si pensi al caso dell’amore: siamo responsabili del nostro amore, o non è forse vero che esso viene a trovarci? Non è vero che l’amore ci visita? Non giunge forse dall’esterno? Ma se ciò vale per l’amore, perché non dovrebbe valere anche per le malattie? Si faccia riferimento poi alla sfera degli affetti: siamo stati noi a scegliere i nostri amici, o sono stati loro ad entrare nelle nostre vite?
La malattia, l’amore e l’amicizia ci sorprendono sempre: per questo dobbiamo smetterla di considerarli a partire dalla nostra ottica cosciente (come se, per es., fossimo veramente noi a decidere di innamorarci), ed iniziare a capire che siamo vissuti dalla vita molto più di quanto non siamo noi a vivere. La saggezza che si perde nella notte dei tempi ha così qualcosa da insegnare a noi uomini tecnologici; troppo centrati su noi stessi, infatti, dimentichiamo il nostro legame con il tutto. In una parola – per concludere – dimentichiamo il nostro destino, dove questo termine va inteso laicamente, tenendo cioè a mente che la gamma dei fattori componenti il mosaico delle nostre esistenze non è certamente a nostra disposizione. E che, dunque, come non meritiamo l’amore che ci viene offerto, regalato, così non meritiamo mai le malattie che ci affliggono.
Marco Tuono